Ghost Mantra – Chandrabindu
- Roberto Checchi
- Nov 24, 2014
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Dopo due EP (“Foetus” e “Death By Water”) i lombardi “Ghost Mantra” arrivano al primo full lenght con le idee chiare, un sound affilato e tagliente come una lama e un bagaglio tecnico di tutto rispetto.
“Chandrabindu” (che significa, letteralmente, “Luna-punto”, un segno diacritico utilizzato in alcune scritture Brahmi per nasalizzare le vocali) ci porta in un mondo di rock metallico ed energico con una passione per la stortura e l'esotico, qualcosa che più d'una volta porta alla mente i “Tool” e il loro metal/prog/math, qui rivisitato con meno complessità: si ricerca il gusto melodico e l'atmosfera, anche se il sapore delle cavalcate sonore attorcigliate e serpentiformi fa capolino qua e là nelle otto tracce del disco.
Dopo un'introduzione meditativa che ci rende chiarissima la direzione mentale e il gusto per l'oriente dei Ghost Mantra (la title track) si parte subito con le chitarre secche come schiaffi, i tempi claudicanti e le ritmiche incessanti (“Shape To Burn”). “Chandrabindu” accelera e rallenta, regalandoci anche abissi atmosferici aperti e oscuri (la parte centrale di “Aphelion”) e vette di scalena complessità, in cui la voce di Paolo Valsecchi naviga alta su un fondale compatto e granitico (“Dopeself”). E questo limitandoci alle prime quattro tracce. Il quintetto ha un senso ritmico invidiabile, oltre ad un gusto sonoro che riesce a rendere il disco all'altezza di un'uscita internazionale (a parte forse qualche – leggerissimo – indizio nascosto nella pronuncia del vocalist, avrei potuto tranquillamente pensare ai “Ghost Mantra” come ad un gruppo d'oltreoceano).
Anche l'immaginario della band è affascinante (ottima anche la cover del disco): per quanto possa sembrare non originale, è seguito con attenzione e passione, e prova ne sono i testi, che nonostante la scelta dell'inglese riescono a non adagiarsi sulla comodità di frasi fatte, centrando mostruosità (in senso positivo) come “Fire disclosed me my own exodus / barefoot walking through stoned Messiah / metempsychotropic / gotta wander here inside my brain / overdose anchorite / don’t care if I’ll stay forever there / reincarnate in hallucination” (la già citata “Dopeself”).
Mi sarei forse aspettato, a questo punto, un incastro più organico di elementi orientali nelle musiche: avrebbe integrato in modo più puntuale il mondo sonoro del disco con la parte testuale. Ma qui cadiamo nel mondo delle illazioni puramente teoriche, che poco ci competono.
I “Ghost Mantra” prendono una strada difficile, un sentiero tutto in salita, per genere, per tematiche (sono affascinati dalla religione, dal misticismo, dalla psiconautica...) e ne scalano le asperità con tenacia, forti di un bagaglio tecnico vasto e non improvvisato, di una chiarezza d'obiettivi che spesso manca a gruppi di questo tipo, oltre ad un gusto per i saliscendi emotivi che rendono l'ascolto piacevole anche ai meno “metallari”. Tutto questo rende “Chandrabindu” un ottimo disco di rock duro e i “Ghost Mantra” una compagine da tenere d'occhio.
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