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Psychovox - Somnus

  • Roberto Checchi
  • Feb 24, 2015
  • 2 min read

I brianzoli Psychovox ci accompagnano, sin dall'incipit (la tribale e sciamanica “Dinosauri”) in un mondo dai contorni poco netti e dall'apparenza fumosa e psichica. Un lavoro fatto di ritmi minimali e ossessività nei riff di chitarra e nelle linee melodiche scarne, in cui danza una voce impersonale, effettata, che disegna immagini vibranti come ombre, come sprazzi d'inconscio.

Incatalogabili: e meno male, ché ci siamo stufati delle band che nascono dal copia-e-incolla. Qui c'è una personalità che emerge da un vortice di riferimenti nebulosi e distanti fra loro, e se mi mettessi a fare nomi e paragoni andrei di certo a perdermi in paraggi che alla band non direbbero nulla. È ciò che accade quando si cerca di evolvere mescolando, divorando quasi senza masticare, guidati solo dal proprio olfatto, dal proprio gusto; e questo uscire dalla melma del già sentito, questo strisciare verso le praterie o i deserti dove i confini non si vedono più, è ciò che ci salverà e ciò che ci ha sempre salvato.

Somnus, quarto album degli Psychovox, è qualcosa che sta tra afflato psichedelico (“Febbre indiana”, “Allucinazione”), rock storto (“La corsa dell'elefante”) e depressioni di luce soffusa e morbida, minimale (“Nella stanza”, “Anna”). Quando un disco è un buon disco, più che un disco è un razzo, un biglietto aereo, una tuta da palombaro, una carovana, una droga psicotropa. Somnus ha un po' di tutto questo. Il punto debole, se proprio dobbiamo cercarlo, sta da qualche parte nei testi, in alcune scelte lessicali o metriche, in certe immagini che potevano essere più affascinanti; ma gli Psychovox, ciononostante, hanno saputo confezionare un ottimo volo, un'ottima visione. Da gustare lentamente, e con concentrazione.

 
 
 

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