Julian Casablancas & The Voidz – Bolognetti Rocks, Bologna, 09/06/2015
- Roberto Checchi
- Jun 17, 2015
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Premessa: “Un simulacro è una rappresentazione che non è necessariamente legata ad un oggetto nel reale. Come una copia senza un “originale” –nel duplice senso di un referente fisico e di una prima versione- il simulacro è spesso usato (…) per descrivere lo statuto dell’immagine in una società dello spettacolo.” (Foster, Bois, Krauss, Buchloh, Arte dal 1900. Modernismo, antimodernismo, postmodernismo) Premessa 2: “Oh everybody plays the game, and if you don’t are called insane” (“I’ll Try Anything Once”)
Ho comprato il biglietto per il concerto di Julian Casablancas & The Voidz (20 euro) elettrizzato dalla prospettiva non di ascoltare la loro musica, ma di vedere il mio eroe. Cosicché, quando sulle note di “Nintendo Blood” è comparso sul palco, mi sono lasciato risucchiare dall’onda del pubblico (non eravamo molti, il posto era piccolo) in estasi, tendendo le braccia in avanti e seguendo stregato il suo sguardo. E davvero, all’inizio, sembrava di assistere a un miracolo: l’andamento soul della canzone, molto più ariosa e sincopata rispetto alla versione su disco, le nostre urla à la british invasion, lui che sorrideva, visibilmente sorpreso e carico, lasciavano presagire un concerto importante, intenso, fuori dalle paludi della nostalgia. Questa impressione inaspettata, sostenuta dalla mia vicinanza ad un gruppo di ragazzi che urlavano a memoria tutte le canzoni, è a poco a poco svanita. Il gruppo ha continuato a macinare canzoni anche con una certa abilità tecnica: pezzi come “Father of Electricity”, con strutture contorte, funzionano molto bene dal vivo: liberati dal mixaggio piatto e filtrato del disco, lasciano uscire fuori influenze percussive e melodiche world music molto gradevoli. Anche canzoni più vicine al canone-Strokes, come “Johan Von Bronx” o “Crunch Punch”, sembrano fatte apposta per essere suonate live, con chitarroni heavy e ritornelli cantabili a pieni polmoni.
Il fatto è che, dopo ognuna di queste canzoni, dapprima una minoranza rumorosa, poi, verso la fine, la maggior parte di noi, ha iniziato a chiedere a gran voce canzoni degli Strokes. Prevedibile, direte, in fondo era anche la mia speranza segreta, in parte soddisfatta con “Vision of Division”, che ho ascoltato con non una, ma due ragazze incastonate tra le mie spalle e le braccia della security, palpeggiando a più non posso. Davvero pochi, tra le persone con cui ho scambiato parole al concerto, avevano ascoltato il disco (nemmeno io, se non qualche canzone in modo distratto), e ancora di meno l’avevano apprezzato. Era naturale che il concerto diventasse, prima o poi, una ricerca affannosa di quello che non esiste più, cioè gli Strokes con Casablancas figo che evita di dimenarsi su improbabili falsetti -il minimo (o il massimo?) che ci aspettavamo. Ma tant’è, da un certo punto del concerto sono partiti i cori sulle note di “I’ll Try Anything Once”, insieme a richieste da piano bar (tra cui una lancinante nenia che era tipo eeeees theeeees eeeeeet con la s moscia).
E Julian, come ha reagito? Premettendo che non sia un mostro di credibilità, e che i miei dubbi su quanto creda a quello che sta facendo sono molto forti, si è giustamente infastidito: non molto, a dire il vero, non ha spaccato telecamere o cose del genere, ma canzone dopo canzone ha smesso di sorridere (tranne quando gli è stata offerta una bottiglia di Coca Cola, ma credo fosse un sorriso amaro), di dispensare batti cinque, di offrire la testa alle nostre mani. La distanza tra noi e lui (gli altri musicisti sembravano molto più rilassati. A proposito, che ne pensano gli altri di tutto questo? Sarebbe curioso saperlo) è progressivamente aumentata. Uscito dal palco con fare rabbioso, seguito dai suoi compagni di non si sa cosa, è poi rientrato per cantare “Human Sadness”. Ci ha riprovato, con i falsetti robotizzati, le movenze da orso, avrà imparato a gestire la rabbia, o semplicemente non gliene frega niente. A inquietante suggello, le ultime parole del concerto: “All is lost, I’ll find my way. To be is not to be, to be is not the way to be”.
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