Intervista a Bobo Rondelli
- Roberto Checchi
- Sep 21, 2015
- 4 min read

Più di un’intervista, queste sono le chiacchiere fatte sorseggiando birra in un caldissimo sabato pomeriggio, con Bobo Rondelli.
Nella stesura delle tue canzoni e nel tuo modo di essere viene molto fuori il fattore di Livorno e della livornesità, questa cosa su di te come scrittore di canzoni, quanto incide?
Se uno fa canzoni tende a fare qualcosa di pop, di popolare, legato alla sua lingua e alla sua origine, alla sua indole e anche agli atteggiamenti della gente del suo luogo. Se c’è una storia di un posto piccolo che però è universale puoi farla svolgere a Livorno, ma mantiene comunque il suo essere universale, un po’ come per un film, un luogo diventa un luogo del mondo.
E a proposito di universalità, questa è una domanda che faccio ogni volta che ho la possibilità di parlare con qualcuno che ha a che fare con l’arte, visto che io non sono in grado di creare arte, probabilmente è per questo che non capisco…
…Vorrei dire, neanche io! Al massimo posso dirmi artigiano.
Va bene, artigiano sia. La mia domanda è questa: cosa si prova ad assistere a una trasposizione del tuo vissuto in un altro, cioè se tu scrivi una canzone d’amore e il tuo pubblico si rispecchia e si immedesima in ciò che tu scrivi, come vivi questa cosa?
A volte dipende dall’ipersensibilità, intesa proprio come malattia, di chi ascolta. Penso che quando ti capita una cosa, la elabori, ci rifletti e la racconti, alla fine, beh, gli umani sono tutti così, come gli accordi. Sono minori o maggiori, ma sono sempre quelli. E alla fine la musica riesce a far ballare tutti insieme, ma anche a far piangere in solitudine nella stanza. Quello che è facile che succeda quando racconti una storia è di trovare qualcuno che ti dica “ah, è vero, non ci avevo pensato” ed è lo stesso che succede quando leggiamo dei libri. Il libro alla fine l’abbiamo già dentro e ci piace perché scopriamo che apre il nostro libro, quello che abbiamo dentro.
E invece per ricollegarsi a Livorno, riesci a immaginarti un Rondelli ragazzo, adesso, nel 2015, che fa una carriera simile alla tua?
Oggi è più difficile perché è un po’ “tutto troppo” e si finisce per non riconoscere più nessun genere. Quando ho iniziato con la musica, c’era il punk, o meglio, le ceneri del punk, però c’era ancora un movimento giovanile che utopisticamente voleva far cambiare il mondo. Ora è tutto un po’ business. Quando vedo i gruppi punk di adesso vedo che non sono malati, non puzzano, sembrano studentelli con le chitarre già belle comprate dal papi!
Dall’altra parte è però positivo che l’approccio alla musica si sia allargato. Ciò di cui sono convinto però è che il sistema usi la tecnologia per far sì che la gente sia sempre più sola, quindi attaccabile, e così apparire diventa la cosa fondamentale. Invece dove c’è un gruppo, una comunità, si tende a conoscersi davvero, nel profondo. Il problema di oggi, quindi, è questa troppa tecnologia, che tende a isolare i ragazzi, e anche l’approcciarsi alla musica da internet e non dal vivo, non vedendo i fermenti, le idee, i pazzi! Perché i pazzi a giro ci sono sempre, e pazzo vuol dire anche quello che sogna di cambiare le cose. Queste credo siano mancanze profonde, a cui i ragazzi dovrebbero sopperire vivendo la musica non solo su internet.
Come riesci a metterti così a nudo davanti alle altre persone, penso ad esempio alla canzone “Nara F.” che parla di tua madre.
È sfruttamento materno anche dopo la morte. Quello che dico sempre prima di cantare quella canzone è proprio he dopo la morte un buon figlio mascalzone sfrutta la madre e la madre è contenta di questo figlio che è eterno mascalzone. Ora questo è il lato scherzoso, però nella canzone tra le righe ho voluto raccontare quello che ha passato mia madre, che fin dai tredici anni ha lavorato come una schiava, e veniva anche importunata, dato che il padrone si permetteva pure di mettere le mani sulle ragazzine che lavoravano dodici ore.
In questa canzone si parla anche della non riconoscenza del lavoro svolto per una vita, uno sfruttamento doppio, quasi.
Sì non ti riconoscono niente, sei schiava e basta. Quando vado a suonare penso spesso a un buon calzolaio che fa il suo lavoro o a un operaio che lavora in fabbrica e nessuno gli ha mai detto “che bel lavoro hai fatto”, che non ricevono mai un applauso. E alle volte mi sento fortunato e anche non meritevole. In fondo sono solo un astuto vagabondo.
E se ora gettassi uno sguardo a tutta la tua carriera con la consapevolezza che hai adesso rispetto al passato cambieresti qualcosa, avresti fatto qualcosa di diverso?
No, va bene, è quello che sei, chi se ne frega!
Per un ragazzo il successo è anche brutto a gestirlo, adesso, ad esempio, sono un po’ conosciuto, e provo comunque disagio, però lo so gestire. In realtà è noioso essere famoso. Alla fine sono una prostituta che non dà baci in bocca, come sempre mi son detto, faccio la prostituta, mi concedo, ma l’anima la do solo quando ho voglia io, sono una prostituta che lo fa per soldi e a volte per amore. Flavia Dell'Ertole
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