Godblesscomputers - Plush and Safe
- Roberto Checchi
- Nov 19, 2015
- 2 min read

Sono in macchina. Le casse della Ka sono pessime: alzo il volume ma gracchiano, distorcono e ottengo solo rumori. Accetto questa miserabile condizione, faccio un paio di giri del quartiere e lascio andare gli ultimi pezzi. Finisce, ma è come se qualcosa fosse ancora in sospeso, un non detto che meno di un’ora fa, durante il live, in qualche senso mi era più chiaro. Sei mesi fa accettai senza troppi patemi di scrivere su Plush and Safe, convinto del fatto che fosse uno di quei dischi su cui si possono dire cose interessanti e profonde, giocando a fare gli intellettuali. Mi sbagliavo, e non di poco. Più leggevo cose su questo disco – recensioni, interviste, commenti – più avevo l’impressione di sbagliare, di allontanarmi dal suo messaggio. Mi sbagliavo e non di poco, perchè ascoltare per scrivere è la morte dell’arte, ed io ascoltavo in funzione di questa recensione. Stavo sbagliando tutto: approcciavo Plush and Safe in maniera distaccata, scolastica, cercando riferimenti, stilemi, citazioni, punti deboli e altre cose del genere. Così tutto non può che rimanere lontano. Roberto non mi pressa e posso far scivolare dei mesi senza scrivere niente. Poi la svolta a Settembre: May Day Festival e Godblesscomputers che chiude le danze: un live che mi arriva dritto allo stomaco e mi trascina altrove, in un posto dove le aspettative non vengono corrisposte e sorprendersi è un piacere da assaporare. Perdo il controllo, non posso più pretendere di averlo ma sono comunque presente. Ed è questo, credo, il messaggio del disco. Quantomeno il per me. In realtà già molto tempo prima ero a Milano per l’inizio del tour ed incontrai Lorenzo al banchetto del merch, gli chiesi qualche disco da ascoltare per “capire” un po’ meglio Plush and Safe: «Non so fai tu, la musica è una cosa personale, non è che devi capirla in un modo o nell’altro, scrivi quello che senti».
La risposta era già stata data: basta solo ascoltare senza troppe domande.
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