Iosonouncane – Locomotiv Club, Bologna (BO), 3 / 12 / 15
- Roberto Checchi
- Dec 11, 2015
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Si apre –letteralmente- il sipario –rosso, magniloquente- e si delineano le silhouettes di sei (sette?) lampade issate su steli di lunghezza variabile. In controluce appaiono Iosonouncane e Serena Locci: due parole-due di saluto e parte Tanca, primo pezzo di Die. La nostra curiosità era tutta sul risultato dell’operazione “Die - tutto tranne chitarra e voce”: come sarebbero uscite quelle sei canzoni? Scheletriche? Deformi? Da spiaggia? Avrebbero risentito del confronto con le versioni “adulte” o sarebbero bastate a sé stesse?
Tanca fa fuori ogni dubbio: oscura, con una chitarra dal sapore blues che gratta il tempo in modo ossessivo, sotterraneo, per poi impennare insieme alla voce di Jacopo verso “rive lontane”. Sembra tutta un’altra canzone, che condivide con la sua sorella (?) soltanto un senso generale di sciagura incombente. La voce di Iosonouncane ha questa doppia anima: da una parte malevola, acida, affilata (impressione confermata nella seguente Stormi, dove si ritrova un simile innalzamento vertiginoso, un simile climax sacrale), dall’altra declamatoria, baritonale. Con questo tono iniziano Buio e Carne: luce soffusa, voce profondissima che sembra provenire dagli stessi luoghi ctoni dell’immaginario di morte/mito che permea il disco. Qui si fa strada la terza dimensione di questo concerto acustico, quella a due voci. Più in questi due pezzi che negli altri si nota il risultato dell’armonia tra la voce di Incani e quella di Serena Locci: gli interventi di lei sono essenziali, le parti corali di queste due canzoni svelano una dolcezza che forse sul disco emergeva solo a sprazzi. Il pubblico apprezza e quando, dopo Paesaggio e Mandria, Incani torna da solo sul palco, la richiama a gran voce, suscitando l’ilarità del partner. Dicevamo, Incani torna sul palco e suona una delle due canzoni “che purtroppo non ho scritto io”, ovvero una versione di Cucciolo Alfredo di Lucio Dalla (l’altra è Vedrai Vedrai di Luigi Tenco). L’interpretazione dei due pezzi è molto sentita, sofferta, ma allo stesso tempo (e forse per questo) personale. Le altre quattro canzoni del concerto sono tratte da Macarena su Roma, disegnando una scaletta perfettamente simmetrica: tre pezzi da Die, una cover, due dall’opera prima e si ricomincia.
L’uscita di scena, dopo Giugno, è discreta e silenziosa come l’ingresso. Sono bastate poche parole a Incani per interagire con un pubblico che lo ha ascoltato in un silenzio pieno di attesa e rispetto (a un certo punto ci ha dato del pubblico “composto”). Per lui hanno parlato queste dodici canzoni, vecchie e nuove, suonate con passione e veemenza. Il set acustico e le due cover ci hanno spinto verso alcune domande: Iosonouncane ha già specificato di non voler avere niente a che fare con l’etichetta di “cantautore” come la si intende di solito, in Italia. Come la consideriamo noi la parola “cantautore”? La nostra tradizione musicale è cantautorale? E’ una categoria di cui abbiamo bisogno per considerare un artista, una pietra di paragone? I cantautori sono quelli che fanno musica basandosi su chitarra e voce? Iosonouncane è tradizionale? Sarà mai un “classico”? O siamo davanti a un artista inqualificabile, “fuori”? Riusciremo mai a inserirlo “dentro”? Ma poi “dentro” a cosa? E questo “fuori” a cosa va imputato? Alla sua enorme competenza, alla varietà delle sue influenze e del suo “sentire”, o al contrario, alla sua “insularità”? Ha ancora senso parlare di “insularità” come stato mentale, o è un concetto ormai desueto? Domande forse oziose, ma non è scontato che un concerto acustico, figlio di un disco tutt’altro che tale, le susciti. Fernando Giacinti
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