Pubbliche dimostrazioni d’odio – Immanuel Casto feat. Lo Stato Sociale
- Roberto Checchi
- Apr 22, 2016
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L’attacco allo Stato Sociale è ormai sport nazionale, disciplina olimpica amata dalla critica nostrana: puoi mettercela nel curriculum, un’invettiva ai danni di Lodo Guenzi. Uno sport dalle competizioni particolari, gare con tanti vincitori, tutti in prima posizione a raccogliere applausi, gonfi di autorità facile.
Giuseppe Civati, leader di quella propaggine piddina autoamputatasi chiamata Possibile, non ha mai nascosto d’esser fervente fan della band bolognese, arrivando a sponsorizzare l’uscita del singolo “C’eravamo tanto sbagliati” con un video pubblicato sul Tubo.
Anche in questo caso le critiche non sono mancate, e l’endorsement sembra aver causato, all’interno di Possibile, il primo scisma politico italiano originato da una canzone indie. In Possibile, due fazioni: chi ha fatto notare che sarebbe meglio continuare ad ascoltare De Andrè e chi non s’è espresso, perché la canna nel taschino ha conquistato tutti. (http://www.strettoweb.com/2015/04/civati-si-fa-fotografare-canna-in-tasca-sino-legalizzazione/270658/ , a proposito, ci sono Radicali che coltivano cannabis sul terrazzo da anni).
Risulta quindi inevitabile la grande rilevanza che i brani dei regaz ottengono nel panorama indipendente italiano. Lodo & co. mobilitano, nel bene o nel male, e non solo dal palco. Lo Stato Sociale riesce infatti a reinventarsi continuamente, ora a teatro, con Lodo, ora dietro una consolle, con Bebo e Alberto. Ennesima prova di questa continua metamorfosi in forma è l’ultimo brano firmato Stato: Pubbliche dimostrazioni d’odio.
La novità? Una particolarissima collaborazione , un featuring spiazzante che vede protagonista uno dei personaggi più complessi della scena elettronica italiana. Stiamo parlando dell’eclettico Immanuel Casto, all’anagrafe Manuel Cuni. Personalità istrionica, il cantautore bergamasco fonda la propria carriera musicale su basi dance che accompagnano testi a sfondo sessuale: lungi però dal ricercare sensazionalismo facile, il “principe del Porn Groove” utilizza spesso il sesso come canovaccio su cui tessere complesse trame di doppi sensi e accusa sociale. Illuminante ai fini di una descrizione fine della poetica dell’artista è il brano Da grande sarai frocio.
Due realtà, Lo Stato Sociale e Immanuel Casto, lontane ma accomunate dallo stesso impegno sociale: se da un lato tuttavia Lo Stato si risolve nell’esplicitarsi, il Casto Divo ricerca un approccio più “profondo”, esplicito solo nella scorza ma fecondo di riflessione nel seme. Cosa è nato dalla collaborazione? Una creatura non ben definita che ben si presta ad un’analisi disgiunta, prima la base, poi il testo. Musicalmente Pubbliche dimostrazioni d’odio risulta indubbiamente frutto di una buona miscelazione stilistica di due elementi: Teppa Bros. (Bebo e Alby dello Stato) e Immanuel Casto. Soccombe in questi quattro minuti scarsi la componente “melodica” dello Stato, e viene a galla la parte più dance, quella che trascina, quella che più accomuna i due collaboratori. La voce del Casto si fa bassa, intervallata da incisi “parlati” dallo Stato che ricordano per forma gli Offlaga Disco Pax. D’altronde Bebo dello Stato non ha mai nascosto una certa ammirazione per il gruppo emiliano, cercando anche, se non di imitarli, almeno di “riprenderli”, con il brano Linea 30, ultima traccia de L’Italia peggiore.
Il testo di Pubbliche dimostrazioni d’odio è invece in linea con la poetica “statale”. Di Immanuel Casto, per come lo conosciamo, non rimane molto. Le strofe appaiono una denuncia diretta ad un generico “loro”: se da un lato questa “spersonalizzazione” del male puo’ esser letta come un rinunciare ad una dura identificazione storica dei “cattivi”, volendo in qualche modo “accomunare i malvagi” di ogni epoca (come suggerisce il video), dall’altro questa scelta rischia di far cadere il testo nel limbo delle “denunce a ignoti”. Certo, il termine “cattivi” potrebbe suonare abbastanza semplicistico e necessita di un inquadramento. Si intuisce, ma non troppo, che dietro quel loro si nasconda chi, in particolar modo nel novecento, ha utilizzato i media per diffondere ideali “d’odio”, essenzialmente razziale. Fatta questa precisazione, il messaggio rimane, a mio avviso, comunque “debole”. Il parlato dello Stato cerca di addrizzare il tiro, lasciandosi andare in un’invettiva sterile che rimane ferma su un’identificazione blanda e addirittura controproducente, perché più che denotare generalizza (vedi “colletti bianchi”). Impantanato in questa lotta a “merde” senza nome, il testo si preclude una più profonda analisi. Non mancano certo le idee, come quella del “se li prendi ad uno ad uno, loro tremano”, che paragona intelligentemente il comportamento di chi odia a quello di un branco, una struttura forte del numero e dell’autocommemorazione.
Altro aspetto da considerare è la marcata linea che il testo segna tra i “loro” e l’ “io cantante”. Chi canta è un puro accusatore, ignifugo e estraneo alle dinamiche d’odio, che non lascia intravedere vacillamenti, un giusto incorruttibile. E’ nel testo un’intrinseca arroganza che pone il cantante furbescamente fuori dalle epoche, un alieno candido tuttavia non troppo coerente, giacchè quello che traspare nelle parole degli incisi, è appunto odio. Odio verso chi odia, e per questo giustificabile. E se la canzone è mezzo di propaganda, appare logico come l’intero testo risulti paradossale. Non un inno di pace, garantista, e in qualche “giusto”, ma un canto di feroce invettiva nei confronti di chi odia, e allo stesso tempo una condanna all'odio. Francesco Paolo Lagrasta
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