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Les Enfants Terribles: Un ritorno del genere

  • Roberto Checchi
  • Nov 20, 2016
  • 4 min read

Erano i lontani anni `70, la generazione dei sessantottini si apprestava a cambiare per sempre la nostra società, una rivoluzione dei gusti, della moda e della musica. Il cinema italiano era in un periodo di forte espansione produttiva, riusciva a regalarci opere d’autore controverse e innovative come Zabriskie point di Bernardo Bertolucci o Salò e le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini. Ma la macchina produttiva non traeva sostentamento da queste pellicole, che spesso pur fondamentali per la storia del cinema (e dell’uomo) risultavano tiepidi incassi ai box office, essa era sostenuta dal grande cinema di genere. Noi italiani insegnavamo al mondo come confezionare opere di qualità con i nostri peplum, i western o i poliziotteschi. Lavori come Profondo rosso del maestro dell’horror Dario Argento o Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci, considerati dalla critica come film di serie B, avevano come scopo principale l’intrattenimento e i loro incassi consentivano alle case di produzioni di poter investire anche sui grandi film d’autore. Tuttavia sostenere che il loro unico scopo fosse l’intrattenimento vorrebbe dire sminuire il valore di queste opere, che riuscivano ad andare oltre la patina superficiale, incorporando l’immaginario e i problemi di quegli anni, costruendo una velata critica alla società e riuscendo ad influenzare enormemente le generazioni dei futuri cinefili. Il periodo aureo del nostro cinema durerà fino alla fine degli anni `80, poi la crisi imporrà una drastica riduzione delle produzioni, a pagarne lo scotto saranno soprattutto questi film di genere che si cristallizzeranno nelle forme di maggior successo (la commedia all’italiana) lasciando le altre forme alle produzioni straniere.

Da allora il cinema nostrano ha vissuto alti e bassi, la discussione se esso sia o meno in crisi è un argomento sempre d’attualità. Ma qualcosa sta cambiando, i generi si sono rinnovati, trasformati, evoluti e la generazione dei nuovi registi sembra volersi impadronire delle logiche del cinema americano per poter tornare ad avere film di intrattenimento di alta qualità. Negli ultimi anni abbiamo visto delle produzioni che fino a poco tempo fa difficilmente avremmo pensato possibili lontano da una logica statunitense. Parlo di film come Lo chiamavano Jeeg Robot, di Gabriele Mainetti, dove il regista produce un opera assolutamente fedele ai canoni del “superhero movie” made in USA (un incidente scatenante, il rifiuto alla chiamata, la svolta “da un grande potere derivano grandi responsabilità”) riuscendo ad impossessarsi di questi dettami stravolgendone completamente gli schemi, inserendoli in un contesto realistico di degrado, un film crudo che combina il realismo italiano all`immaginario dei supereroi (e degli anime). Non è un caso se il regista, grande amante del cinema, scelga un titolo che richiami un'altra iconica opera degli anni anni `70 : Lo chiamavano Trinità. Ma parlo anche di Veloce come il vento di Matteo Rovere, un film che senza pretese di autorialità riesce a mettere in scena convincenti gare automobilistiche, lo spettacolo puro delle immagini in movimento, probabilmente il miglior film sulle corse d’auto mai girato in Italia, affrontando anche uno dei grandi topoi del cinema americano, la rivalsa del perdente, la seconda possibilità che non si nega a nessuno. Ma se i nuovi generi riescono a trovare nuovi spazi e visibilità, i vecchi si trasformano, e così i poliziotteschi e i noir trovano una nuova casa nelle produzioni televisive seriali come Gomorra o Romanzo criminale, ma anche al cinema con Suburra (che tra le altre cose diventerà un serial per Netflix) di Stefano Solimà, dove sebbene non vi sia traccia di poliziotti possiamo riconoscere le meccaniche e i ritmi dei polizieschi. Certo ora non è più un genere duro e puro, si è macchiato, ha assorbito il film politico, il gangster movie e il realismo italiano, riuscendo null’obbiettivo di ogni grande film di genere, affiancare ad un grande spettacolo una valida critica alla società attuale.

Forse avremmo più film di questo tipo se i produttori trovassero il coraggio di investire maggiormente in lavori considerati delle scommesse, d’altronde se non si scommette non si può vincere. Esemplari sono i casi di Lo chiamavano Jeeg Robot (di nuovo) e Mine. Il regista del primo vide numerosi rifiuti del soggetto prima di decidere, esasperato, di autofinanziarsi, solo in un secondo momento si sarebbe affiancata Rai Cinema riconoscendolo un film di valore, se non fosse stato per la sua intraprendenza non avremmo visto quel trionfo di critica e botteghino che è stato. Diverso il caso del secondo film, Mine è una recente opera di Fabio Guaglione e Fabio Rosinaro che racconta la storia di un soldato americano bloccato nel deserto su di una mina anti-uomo in attesa di aiuti. Uno script che trova certamente terreno fertile nel mercato americano ma che venne proposto anche a case di produzione del bel paese, trovando solo rifiuti. Se è vero che è la commedia il genere che ancora stradomina il nostro mercato (ma anche qui, ci siamo spostati sul nuovo genere di “commedia del comico tv” grazie al fenomeno Zalone, su cui si potrebbe aprire una lunghissima parentesi) è indubbio che i nuovi registi italiani sono attenti alla necessità del cinema di rinnovarsi e cambiare, forse è troppo presto per parlare di nuova primavere del cinema di genere italiano, ma la speranza che qualcosa sia cambiato è grande.

 
 
 

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