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È solo la fine del mondo

  • Roberto Checchi
  • Dec 14, 2016
  • 4 min read

Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes 2016 questa produzione franco-canadese è tratta da una pièce teatrale di Jean-Luc Lagarce. "Pièce": pezzo. Questa idea dei pezzi incomponibili ci è suggerita fin dalla grafica della locandina.

Per dare un'idea dell'impegno autoriale di questo ragazzo canadese di appena ventisette anni e sei film all'attivo, oltre a ricordare che qui è regista, sceneggiatore e montatore mi piace far notare come, leggendo dai titoli di coda, Xavier Dolan si sia occupato anche della traduzione dei sottotitoli in inglese. Mi ha ricordato Stanley Kubrick e la sua maniacale cura per la realizzazione della sua opera in modo che rispettasse in tutto e per tutto la sua idea su scala universale ed essa non fosse rovinata da un adattamento dozzinale per il cinema straniero.

Come tutti i film di stampo teatrale anche per questo È solo la fine del mondo il numero delle locations è limitatissimo ed invece i dialoghi si riversano come una serie di binari in una grande stazione: una serie di binari tronchi. Tronchi perchè Dolan ci parla del tempo perduto e dell'aridità della conversazione quando non osa o non può più essere intima. Dolan - come tutti, del resto - non sa scrivere se non di se stesso. È ancora troppo giovane perchè si scrivano su di lui delle biografie, e per questo ci sta pensando lui stesso, film dopo film. Louis (Gaspard Ulliel) ha lasciato la sua famiglia per dodici anni e "per solide (e tragiche) motivazioni personali" è spinto a rincontrarla. Quasi tutti, al suo ritorno, cercano di ricucire il tempo perduto ripartendo da un'età ormai completamente sbiadita della quale restano loro soltanto storie ormai consumate dai troppi racconti. Ma non c'è (più) niente da condividere, sono stranieri che non possono sopportare di conversare per più di una giornata, anche se stentano a capirtlo. Quello che è venuta a mancare è la condivisione di esperienze, e il linguaggio, per quanto forzatamente non affettato ed, invece, puntuale non colmerà mai questa voragine . Le antiche dinamiche relazionali sono ormai del tutto inadeguate. Dolan inanella un dialogo dopo l'altro, ma non un filo va a comporre una trama. Scrivere in questo modo è decisamente complicato e si merita un lungo applauso, poichè le relazioni di cui intesse la sua pellicola sono semplici da patire, ma affatto facili da tradurre in parole perchè siano comunicative. E infatti le conversazioni si stringono come nella discesa all'interno di un imbuto e terminano in un filo di quel fumo evanescente che viene costantemente anelato da tutti i personaggi per mascherare l'imbarazzo. Le parole si strozzano in gola. Solo Antoine (Vincent Cassel) comprende la mostruosità di quella finta occasione di incontro, ne anticipa i motivi, ma non vuole farsene carico. "La gente pensa che chi stia in silenzio sia bravo ad ascoltare, ma io sto zitto perchè le persone mi lascino in pace. Puoi capirlo Louis?!". Non sorprende che sarà la sola Catherine (Marion Cotillard) la custode della ragione di quella visita. Non è più sconosciuta a Louis di quanto lo sia la sua stessa sorella (Léa Seydoux), ma se da una parte ci si dà del lei, dall'altra quest'ultima crede sia giusto abbracciare fin dal principio quell'uomo che altri dicono essere suo fratello. Ed è proprio nella scena all'ingresso che esplode tutta la cifra stilistica di Dolan: questo film è una profusione di primi e primissimi piani, intimi, sui volti degli attori, e questo risulta evidente proprio nel momento dell'incontro dove Dolan contravviene alla canonica alternanza di campi/controcampi e totali orientativi (per lo spettatore) e monta uno dopo l'altro solo e soltanto primi piani dei volti degli attori per un tempo davvero esteso. E per tutta la pellicola è mantenuto il fuoco sui soli visi in modo che si possa apprezzare ogni singola ruga d'espressione di un cast strepitoso senza distrarsi con il paesaggio alle loro spalle - lasciato appunto quasi sempre fuori fuoco.

Amo come Dolan sperimenti con il mezzo registico-fotografico, come già fu per l'aspect ratio di Mommy, ad esempio. Gli abbracci durano più tempo di quanto si sia abituati a vedere inscenare, la tensione è palpabile ed esplode ripetutamente e in tutto questo Luis capisce che non c'è nulla di vero né di opportuno in quello che è venuto a fare. Nulla di ciò che si era aspettato pare coincidere con la realtà dei fatti. Tenta di stabilire un contatto con ciascuno di loro, ma ogni manifestazione di intimità discorsiva viene rimbalzata, proprio come ci accade quando percepiamo nelle parole di un nostro interlocutore un fastidioso scarto fra le parole che sceglie di dedicarci e il nostro legame con lui (il/la famoso/a amico/a che non vedevamo da tantissimo tempo o che non riteniamo essere un nostro intimo conoscente, e che invece ci colpisce con dettagli troppo personali su di sè per non lasciarci con quel ben definito senso di inopportunità addosso).

Il finale è maestoso: sarà la sola Catherine a sapere del più tragico dei messaggi che Luis credeva fosse giusto dover rivolgere alla sua (vecchia) famiglia, ma questi le intima di tacerlo: non è a degli sconosciuti che si può donare la propria anima; la famiglia è solo un simbolo che come tale può anche smettere di denotare alcunché se per troppo tempo nessuno se ne serve. Si volta ed ha una nuova allucinazione (forse una rappresentazione della sua antica decisione di volare incontro alla sua libertà, oppure il ricordo di un infantile sogno ad occhi aperti che ora stramazza al suolo, poiché quell'estrema “recherche du temps perdu” si è rivelata quello che è inevitabile che fosse: un binario... MORTO). Sebastiano Miotti

 
 
 

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