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Les Enfants Terribles: I Kaiju Incompresi

  • Roberto Checchi
  • Jan 17, 2017
  • 7 min read

Davanti a te c’è il mare. Senti le sue onde sui piedi, il suo odore salmastro nelle narici. L’unico suono è lo sciabordio dell’acqua che incontra la sabbia. D’un tratto, l’orizzonte piatto si rompe. La figura cresce, sempre più grande; la sua ombra presto t’inghiotte, la sua mole immane ti sovrasta. Il suo ruggito ti investe come una ventata di rabbia primordiale. Un mostro emerge dai flutti.

Se ora stai scappando, buon per te. Significa che sei una persona dotata di un ragionevole istinto di conservazione, e che non gradisci l’idea di farti calpestare da una creatura che non ti fa nemmeno la cortesia di notare la tua esistenza. Va benissimo, nulla di male. Se invece stai esitando, perché una vocina dentro la tua testa dice che forse il mostro ha una motivo per seminare distruzione, un messaggio da trasmettere, e stai quasi pensando di chiederglielo... non farti abbattere dalla tua morte imminente, questo articolo fa al caso tuo.

L’idea di scriverlo nasce da una triste constatazione: qui in Italia, sono in pochi a prendere sul serio i film di mostri, o kaiju eiga, per usare il termine giapponese (letteralmente kaiju vuol dire “strane bestie”). Di poco aiuto nel riscatto di questo nobile genere sono i film con cui il pubblico italiano viene solitamente a contatto, che sono in genere o film di serie B in cui recitazione, sceneggiatura, effetti speciali e più o meno ogni altra cosa sfiorano l’inguardabile, ma che personalmente io guardo non di meno, o la loro versione più evoluta ad alto budget. Questi ultimi sono film godibili a patto di avere una sana voglia di distruzione, o di essere stati uno di quei bambini che si riempivano di giochi di dinosauri (presente); ne è un ottimo esempio Pacific Rim di Guillermo del Toro, film che omaggia la tradizione del genere in un sontuoso climax di cazzutaggine, ma che offre poco a chi non senta la spinta degli atavici istinti di cui sopra (mi dicono che nel mondo esistono anche persone così). A volte, però, i film di kaiju hanno qualcosa in più da dire. Intendo parlare di alcuni esemplari della specie che credo convinceranno di ciò anche i più scettici.

Il genere nasce in America con King Kong, ormai divenuto un classico. Sono stati però i giapponesi a portarlo avanti per tanti anni con impavido fervore. È questa la patria del re dei mostri, Godzilla.

Con l’uscita del Godzilla di Gareth Edwards (il regista di Rogue One per intenderci), prodotto in America ma fedele all’originale pressoché in tutto, dal design del mostro, ai riferimenti tematici, alla struttura graduale con cui i titani vengono mostrati poco a poco fino al picco finale di devastazione, ho notato una sconcertante confusione nello spettatore medio riguardo il dinosauro nucleare. La colpa di questo, credo, è soprattutto del precedente Godzilla americano, di Roland Emmerich; domandandoci se anche questo film ha rispettato la sua fonte, l’unica risposta che possiamo ricevere è un secco no, no e ancora no, proprio no, come ti viene in mente no (non è un caso se i fan lo chiamano G.I.N.O., ovvero Godzilla In Name Only). Ma basta remake: parliamo dell’originale.

Gojira (occidentalizzato Godzilla) appare per la prima volta sul grande schermo nel 1954. Questa data è importante perché, se nel film Godzilla è un dinosauro anfibio sopravvissuto negli abissi marini, risvegliato e mutato dai test con la bomba H, esso è figlio dell’atomica anche nella realtà. Soltanto nove anni prima, infatti, la nazione fu sconvolta dall’annientamento di Hiroshima e Nagasaki. Non solo: nello stesso 54 una barca di pescatori, la Lucky Dragon, capitò troppo vicina a un sito in cui gli americani facevano test nucleari, e il risultato fu l’avvelenamento da radiazioni dell’equipaggio che causò la morte di uno di loro. Le prime scene del film richiamano direttamente questi fatti; la pelle stessa del mostro è ispirata alle cicatrici cheloidee dei sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki. Abbiamo così scoperto la vera essenza di Godzilla: certo, lo si può vedere come un tizio che si muove goffamente in un set di miniature sotto il peso di un costumone di gomma di un buon 100 chili, ma se ci lasciamo coinvolgere dalla finzione cinematografica vedremo l’incarnazione di una forza dirompente e incontrollabile, una minaccia spettrale che aleggia sulle teste di un popolo intero, una sentenza di morte indiscriminata e ineluttabile. Godzilla non rappresenta l’atomica, lui è l’atomica.

Ecco quindi il perché del tono del film, che sorprenderebbe uno spettatore impreparato: è molto sobrio e cupo, specie confrontandolo ai successivi film della saga, che negli anni hanno cambiato gradualmente target verso un pubblico di giovani, spiegando così il ruolo mutevole del personaggio da cattivo a buono, le trame che non so altrimenti definire se non fuori di testa e le trovate, per così dire, discutibili (Godzilla che fa mosse di karate è una visione difficilmente esprimibile a parole). Qui, invece, il tema del nucleare è sempre presente, attraverso riferimenti diretti e indiretti, la maggior parte dei quali tagliati nella versione americana del 56. Il principale dilemma morale è affidato al professor Serizawa, scienziato tormentato (complice anche la fidanzata che riesce a tradire la sua fiducia in due modi diversi) perché la scoperta che ha fatto è capace di distruggere Godzilla, ma non vuole usarla per paura di vederla trasformata in un’arma di distruzione di massa. In un suo discorso verso la fine, arriverà ad accusare direttamente la corsa verso armamenti sempre più potenti, e la pellicola, ricordiamolo, è uscita durante gli anni della Guerra Fredda.

Tornando al costumone, la verità è che il film è realizzato davvero bene. Lo skyline della Tokyo di allora è perfettamente accurato: il regista, Ishiro Honda, arrivò a salire con il suo staff sul tetto di un edificio per programmare la distruzione che si sarebbe vista, con il risultato in un certo senso prevedibile che furono quasi arrestati dalla polizia, chiamata da un custode che aveva sentito discorsi quali “buttiamo giù questo palazzo, facciamo crollare quello”. Gli sforzi però sono serviti: ancora oggi, vedere la figura scura della bestia che troneggia sullo sfondo di Tokyo in fiamme conserva tutto il suo fascino. In effetti, indagando, scopriremo che Honda è stato cinematograficamente “tirato su” niente meno che da Akira Kurosawa, cui ha fatto da secondo alla regia per Cane Randagio, e con cui ha collaborato per diversi altri. Godzilla, tuttavia, raggiunge il suo apice mostrando non la distruzione, ma le sue conseguenze: l’immagine di Tokyo si trasformerà in quella di Hiroshima bombardata, che Honda aveva visto con i propri occhi, e saremo ammutoliti dalle scene brutalmente realistiche degli ospedali ingombri di feriti, una bambina che piange disperata mentre il cadavere di sua madre viene portato via. Godzilla non è solo un kaiju eiga, ma un’appassionata condanna della potenza atomica usata come arma e della guerra in generale.

Ma la tradizione dei film di mostri di qualità non è finita allora. Facciamo un salto di mezzo secolo, rimanendo in oriente ma spostandoci in Corea del Sud. Qui, nel 2006, esce l’incredibile The Host di Bong Joon-Ho, all’epoca il maggior successo del cinema coreano mai registrato al botteghino.

Quel che The Host ha di straordinario è, innanzitutto, quante cose il regista sia riuscito a far stare in due ore scarse di film. C’è il dramma familiare, con la vicenda che ruota intorno alle vicissitudini della famiglia Park. C’è la componente horror, capace sia di tenere lo spettatore con il cuore in gola, sia di dargli inaspettati brividi d’inquietudine. Guardando The Host si può ridere, grazie a una comicità portata avanti da una deliziosa idiozia generalizzata dei personaggi degna dei fratelli Cohen. Certo, tecnicamente si tratta di un film con un mostro viscido che esce dal suo fiume per divorare innocenti passanti; eppure c’è spazio anche per la riflessione sociale e politica, visto che la creatura risulta essere portatrice di un virus contagioso che fa scattare la quarantena e scatena un’isteria di massa che richiama quella per la SARS. Tale mostro è il risultato dell’irresponsabile inquinamento del fiume Han con della formaldeide, da parte di uno scienziato americano; il film ritrae la scena in termini enfatici, ma il fatto è accaduto veramente. Da qui il ruolo degli americani, dipinti come insensibili ai danni subiti dal popolo coreano, ad esempio nel loro tentativo di neutralizzare il mostro con una sostanza nociva denominata “Agente Giallo”, ironica allusione all’Agente Arancio usato durante la guerra in Vietnam per contaminare la vegetazione.

Il vero cuore del film però è proprio la vicenda familiare. I Park sono cinque: il vecchio nonno, gestore di un chiosco in riva al fiume, i tre figli adulti, e la figlia di uno di loro. Questi personaggi un po’ patetici, un po’ eroici non potranno che assorbirci nella loro odissea. Il mostro farà confrontare ciascuno di loro con i propri demoni: il laureato che non trova lavoro, arrabbiato e pessimista, senza scopo o direzione; la campionessa in tiro con l’arco, che vede sfumare la medaglia perché esita e fa scadere il tempo; il bambinone limitato e indolente, padre di una ragazzina ben più sveglia di lui, dipendente dal vecchio padre. Questo sciocco individuo sperduto nel mondo, perennemente sgridato dai fratelli per la sua stupidità, è senz’altro la figura più tragica del film, un peso per la sua famiglia, con tutta la sofferenza che ne deriva. All’inizio, durante la prima apparizione della creatura, c’è un momento che tranquillamente definirei agghiacciante: lui sta scappando tenendo per mano la figlia, quando i due cadono a terra. La afferra di nuovo e riprende a correre, soltanto per scoprire di aver fatto l’ennesimo errore, prendendo per mano nella fretta un’altra bambina. A quel punto si gira, e vede sua figlia, da sola, mentre il mostro le si avvicina.

Questo improbabile amalgama di elementi diversi è tenuto insieme da una regia che ci regala un’immagine suggestiva dietro l’altra, e sorretto da una colonna sonora che combacia alla perfezione con l’elegante bizzarria del film. In definitiva, posso soltanto dire che The Host merita di essere visto da tutti, non solo dai fan degli esseri mostruosi.

Consegnato il suo messaggio di distruzione, il mostro se ne torna, mesto, nella sua dimora acquatica. Nel suo testone squamoso c’è una tenue speranza: che la prossima volta, invece del pregiudizio generato dai suoi spensierati simili, trovi qualcuno ad ascoltarlo.

 
 
 

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