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Donne sull’orlo di una crisi di nervi

  • Roberto Checchi
  • Feb 16, 2017
  • 4 min read

Succede, di tanto in tanto, di scoprire qualcosa che ci provoca una strana sensazione. Non possiamo spiegare chiaramente che cosa, né capiamo bene quale sia il motivo, ma istintivamente ci sentiamo trasportati in un altro mondo del quale possiamo cogliere nitidamente ogni aspetto.

È questo che può succedere guardando Donne sull’orlo di una crisi di nervi, settimo lungometraggio del regista spagnolo Pedro Almodòvar, pluripremiato nel corso di quasi quarant’anni di carriera e arrivato sugli schermi di tutto il mondo proprio con questa pellicola nel 1988. Figura centrale nel cinema iberico, Almodòvar è uno di quegli autori capaci di esprimere uno stile del tutto personale, un marchio di fabbrica che rende ogni lavoro parte di un’opera complessiva.

I colori caldi e una fotografia con saturazioni molto alte, le atmosfere vivaci create dalle scenografie, dalle colonne sonore, attori e attrici mediterranei che una volta tanto ci ricordano che il mondo non è tutto visi freddi e mascelloni americani. Tutto contribuisce a provocarci quel sentimento così puro e particolare. Non è un semplice “essere dalla parte di un personaggio”: quelli di film del genere sono persone come noi, e ce ne accorgiamo un po’ alla volta. Abituati a un mondo in cui ci vengono messe di fronte a priori due visioni più o meno chiare di bene e male, di giusto e sbagliato, storie come questa ci liberano dai punti di vista prefissati, permettendoci di muoverci come preferiamo.

I personaggi più importanti delle sceneggiature di Almodòvar, quelli su cui ci concentreremo, sono sfaccettati, hanno caratteristiche “vere” come potremmo averle e come le abbiamo effettivamente noi spettatori. Un esempio ci viene dato già dall’inizio del film: la protagonista di Donne sull’orlo…, Pepa, è una doppiatrice sulla quarantina di Madrid. Ci viene mostrata per la prima volta addormentata sul letto alle 11 di mattina, con tre o quattro orologi sul comodino che hanno suonato la sveglia alle 8. Sentiamo il telefono che squilla e parte la segreteria: un uomo le spiega che la loro relazione è finita. Pepa si sveglia e corre a rispondere senza riuscirci. Poco dopo essersi alzata dice di aver preso dei sonniferi, la si vede uscire da uno studio medico mentre un dottore le dice di fare una vita più sana.

La prima impressione è quindi un misto di confusione e curiosità: cerchiamo, per abitudine, di dare delle etichette al personaggio, di trovarle un ruolo che la renda più semplice da leggere. In realtà nessuno di questi aspetti, anche se poi saranno tutti ripresi e giustificati, riesce a riassumere bene il personaggio. E questo non perché la sceneggiatura sia scritta male, ma perché è così ben curata da riuscire a creare una psicologia completa, su più livelli.

Non siamo di fronte a delle macchiette con caratteristiche semplici e basilari: si tratta di persone concrete che non mantengono mai la stessa forma, con caratteri così ben studiati che per tutta la durata del film restano in costruzione, svelandoci poco a poco qualcosa di nuovo sui pensieri e sui sentimenti di ciascuno. Il regista riesce così a farci affezionare in pochissimo tempo alle loro storie, magari distantissime dalla nostra, ma a tutti gli effetti umane.

Sarebbe sbagliato dire che i film di Almodòvar sono realistici: i vari intrecci delle conoscenze/parentele, le numerose coincidenze, le situazioni assurde fanno apparire tutto paradossale, estremo e costruito. Senza svelare troppo, il film gira attorno alla vicenda di Pepa che per due giorni tenta di mettersi in contatto con Ivan, l’uomo della telefonata. Man mano che la storia prosegue le si stringono attorno sempre più persone, ciascuna delle quali è legata a lei in modi strani: Candela, giovane modella paranoica convinta di essere inseguita dalla polizia, Carlos (un Antonio Banderas ancora pischello) in cerca di un appartamento da affittare e Lucia, madre di Carlos, l’antagonista che per tutto il film avrà un tira e molla continuo con Pepa. A condire il piatto principale un sacco di comparsate di quasi nessuna importanza per la narrazione, ma dalla caratterizzazione in questo caso forte e quasi da macchietta. L’effetto che nasce dall’incontro dei protagonisti con queste spalle è il vero motore comico del film (l’esempio migliore è il kitchissimo proprietario del Mambo Taxi).

Il tema cardine è la comunicazione, o meglio la sua totale assenza per tutta la durata della pellicola: tra messaggi lasciati sulle segreterie telefoniche, biglietti nelle caselle della posta e una sceneggiatura piena di dialoghi che non portano mai da nessuna parte, in realtà sentiamo solo il parlarsi addosso dei personaggi che non riescono o non cercano mai di ascoltarsi veramente l’un l’altro. Almodòvar mette sotto processo il telefono e la sua importanza già allora fondamentale nella vita delle persone, mostrando come sia uno strumento capace di renderci bugiardi e falsi. Stupisce comunque che un tema del genere, ormai quasi sempre sviluppato con opere che cercano di essere impegnate e intellettualoidi (spesso senza riuscirci), venga sfruttato dal regista spagnolo con estrema leggerezza, lasciato quasi in secondo piano come livello di lettura dedicato a chi vuole averne una visione completa senza togliere niente allo spettatore comune.

Insomma, Donne sull’orlo di una crisi di nervi è un’opera che a trent’anni dall’uscita risulta ancora freschissima, attuale e sincera. Abbastanza leggeri da poter essere visti quando si cerca di staccare il cervello per un po’ e farsi quattro risate, abbastanza densi da poter essere studiati da chi vuole una pellicola d’autore da cui ricevere qualcosa, i film di questo tipo ci ricordano che anche il cinema “di consumo” può (e dovrebbe più spesso) essere di qualità. Diego Maroni

 
 
 

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