Okasareta Hakui (Angeli Violati)
- Roberto Checchi
- Mar 9, 2017
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Un inesorabile slideshow: scene di vita quotidiane, donne per le strade, il protagonista, il suo profilo, zoom sul volto in primo piano, per la via i polpacci nudi sotto le gonne, un beffardo sorriso femminile, acconciature, riveste pornografiche, nudi, dettagli, seni, un capezzolo, cosce, natiche, un naso, narici, un occhio, un’ascella irsuta, ancora profili, altri zoom, ancora uno sgradevole riso, una bocca spalancata, della labbra, lo sprofondare del volto in questo oceano di immagini erotiche su carta patinata. Di sottofondo un organetto suona una semplice melodia: ovattata, malinconica, disturbante. Mi ricorda vagamente l’effetto che può suscitare il tema musicale di Lavandonia, che chi di voi ha passato l’infanzia negli anni ’90 con un Gameboy in mano probabilmente ricorderà. Ma perché citare un particolare di un videogioco, principalmente rivolto ad un pubblico di bambini (stiamo parlando di Pokémon, se qualcuno non avesse colto), responsabile di una delle più famose leggende metropolitane e materiale da creepy-pasta, in libera circolazione su forum di appassionati di grottesche storielle dell’orrore? La risposta è che si tratta di una semplice associazione, a causa del luogo di origine (il Giappone) del film di cui ci stiamo accigendo a parlare e di una particolarità che caretterizza l’opera del regista che ne è autore: il contrasto. Ne parleremo in seguito.
Okasareta Hakui, Angeli Violati in italiano, mediometraggio del ’67, di cui abbiamo descritto in termini di montaggio l’inizio, è probabilmente uno dei film più famosi di Koji Wakamatsu, figura di punta del cinema di genere giapponese degli anni ‘60. Conosciuto principalmente da amanti del cinema borderline (pulp, trash, exploitation, b-movie), l’autore presenta in realtà una serie di caratteristiche comuni al Nuberu Bagu (la “nouvelle vague” giapponese) in termini di stile e tematiche trattate: lotta politca di estrema sinistra, alienazione e disagio giovanile, condizione della classe studentesca, ridifinizione dei rapporti di genere e della sessualità. Rilegato per certi versi al cinema erotico ed al crime-fiction, con qualche incursione in quello politico e occasionali roccamboleschi sincretismi tra di essi, si distingue per una produzione sconfinata (si parla di circa 150 film girati lungo l’intera carriera) e altalenante. Entrambi fattori dovuti all’evidente natura b-movie (in termini di produzione low-budget) dei film girati, nei quali si alternano opere facilmente dimenticabili, ottimi lavori e qualche capolavoro. Sinceramente non saprei in quale di queste macro categorie valutative inserire il sopracitato Angeli Violati, ma probabilmente, a seconda del punto di vista, rientra paradossalmente in tutte e tre, cosa che lo rende paradigmatico.
Sceneggiato insieme al consueto collaboratore Masao Adachi, ispirato a fatti realmente accaduti (negli Stati Uniti), il film narra di un giovane uomo che, per la leggerezza di alcune studentesse, si introduce in un dormitorio di giovani infermiere e lì, alla visione di un rapporto sessuale saffico, si scatena in un freddo e sadico moto di ira cominciando, una dopo l’altra, a massacrare le malcapitate inquiline dell’abitazione. Il soggetto può apparire fragile e stigmatizzato, ma viene valorizzato dall’estrema perizia registica di Wakamatsu: lo stretto e claustrofobico ambiente, tipico dei lotti abitativi giapponesi, diventa occasione per organizzare una sapiente disposizione geometrica della costruzione interna dell’immagine. Geometrie, simmetrie, articolazione dei piani, punti e linee di fuga: Wakamatsu tramite l’immagine cinematografica (quindi bidimensionale) restituisce una tridimensionalità amplificata; riabita lo spazio e lo ricostruisce in una maniera che ha pochi precedenti, se non, ad esempio e con tutt’altra forma, ne Il Coltello nell’Acqua di Polanski. A quanto delimitato ed inquadrato dalle pareti, che angosciasamente incombono sul piccolo territorio privato in cui ha luogo la cruenta vicenda, si alterna il suo correlato speculare: lo spazio immaginario. Le divagazioni psicotiche e allucinate del protagonista fanno da contr’altare alla realtà: restituendoci un’immagine specchiata su sfondo nero, in cui si concretizzano ossesioni, moventi e morbosità, per poi essere riproiettata all’esterno. In tal senso si può parlare di una spazialità tripartita: immaginario e realtà, di cui questa a sua volta spezzata in due tra campo e fuori campo. Ogni omicidio e violenza diretta sfugge sistematicamente allo sguardo della cinepresa, la quale vi giunge solo in un secondo momento, a cose fatte, per svelare i resti della carneficina sotto forma di cadavere. È a questo punto che il genio stilistico di Wakamatsu giunge al suo apice percuotendo lo spettatore con un vero e proprio shock percettivo. Il film, che si nutre di un ombroso e asettico bianco e nero per la maggior parte della sua durata, svolta in un tripudio di colori caldi, saturatissimi, in cui il rosso lo fa da padrone. Una composizione terrificante e pittoresca, un violenza estetizzata fino al punto di diventare sublime. Qui quindi, concludendo, ci riallacciamo a quanto prima solo accennato: il cinema di Wakamatsu è un cinema di contrasti. Bianco e nero e colore, b-movie e autorialità, genere ed eleganza, orrore e bellezza, un gioco di opposti che giungono a sintesi senza mascherare i difetti, se tali possiamo considerarli, della propria controparte. Provateci. Claudio Gallo
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