Les Enfants Terribles: Raccontare l’Incomunicabile - fra Michelangelo Antonioni e Wang Kar-Wai
- Roberto Checchi
- Sep 30, 2017
- 6 min read

Avete mai avuto la sensazione, trovandovi accanto a un’altra persona, che ci fosse come un grande vuoto tra di voi? Che la mente dell’altro, in fondo, vi rimarrà per sempre inaccessibile, e che nessuna quantità di parole potrà mai riempire questo baratro? Paradossalmente, si direbbe che questo sia un sentimento universale, dal momento che lo si può trovare in film partoriti da culture molto diverse. In questo articolo vi parlerò di due registi, uno di Ferrara e uno di Hong Kong, che hanno affrontato i temi dell’alienazione, dell’isolamento, dell’impossibilità di una reale comunicazione tra esseri umani. Sto parlando di Michelangelo Antonioni e di Wong Kar-Wai. Visto che siamo in tema di incomprensioni, sento il bisogno di specificare che Wong Kar-Wai è quello di Hong Kong.
Molti di voi potrebbero non essere granché familiari con questi registi, ciascuno di essi totalmente unico nel proprio genere. Non avendo lo spazio né tanto meno la competenza per una trattazione esaustiva, mi limiterò a darvi le mie impressioni su alcuni dei loro film che più hanno toccato i temi di cui sopra, l’incomunicabilità in primo luogo. Non serve farmi notare l’ironia della cosa.
Entrambi i registi, nella loro indagine, partono dallo stesso argomento: le relazioni amorose. Tutti i film di cui parlerò ruotano in qualche modo intorno ad esse. Credo abbiate già intuito che non si tratterà delle storie romantiche che siamo abituati a vedere sullo schermo.
Le relazioni esplorate da Antonioni, nella sua (non a caso) trilogia dell’incomunicabilità (o tetralogia, se si include Deserto Rosso), sono di vario tipo: una relazione proibita in L’Avventura, un matrimonio quietamente appassito in La Notte, una storia d’amore appena nata e, in teoria, al culmine del sentimento in L’Eclisse. Ciò che accomuna queste relazioni è il loro essere irrimediabilmente vuote, niente più che illusioni di un contatto tra esseri incapaci di reale comunicazione, contratte più per consuetudine che per autentica passione. Peraltro, dire che è il regista a esplorarle non sarebbe del tutto esatto: le mette in scena, ma senza imporre allo spettatore alcun messaggio o significato stabilito. Sarà questi, invece, a dover trovare un significato nelle parole dei personaggi e, ancor di più, nei loro lunghi silenzi, come se il muro dell’incomunicabilità arrivasse a separare gli stessi regista e spettatore. La diretta conseguenza di questo è che, in effetti, potrei dirvi qualunque stronzata sui suoi film spacciandola per un’interpretazione ardita. Il cinema di Antonioni è davvero enigmatico fino a questo punto.
Nei film di Wong Kar-Wai, l’isolamento e l’incomunicabilità sono visti con una prospettiva leggermente diversa. Se le relazioni che ci vengono presentate sono ancora una volta superficiali, prive di reale vicinanza, assume grande importante anche la loro caducità e casualità. Le persone ritratte nei suoi film incrociano il proprio percorso solitario con quello di altri, ma mai a lungo. Ciò si riflette nella struttura stessa di Chungking Express (che il regista ha diretto per “staccare” dal lavoro su un film di arti marziali; quando si dice far fruttare il proprio tempo libero) e di Fallen Angels, due film che il regista considera un unico lungometraggio in due parti; ciascuno di essi segue le vicende di più personaggi, occasionalmente intersecate. E anche quando, finalmente, il caso porta questi individui a trovarsi, il contatto è labile e illusorio: spesso, invece di un dialogo, sentiamo il monologo interiore di uno dei due coprire le parole dell’altro.
Se il tema è simile, ciò che differenzia completamente le “storie d’amore” concepite dall’uno e dall’altro regista (cosa che impatta direttamente sul modo di viverle dello spettatore) sono i personaggi. Credo che una buona definizione per quelli di Antonioni sia “un elemento dell’immagine”, e nulla di più. Ciò che rende umani i personaggi di qualsiasi narrativa sono le loro storie; Antonioni non ci rivela quelle dei suoi, come pure le loro motivazioni, pensieri, desideri. Quel che ci resta da vedere sono individui isolati che sembrano galleggiare nel paesaggio, nell’oziosa quanto infruttuosa ricerca di uno scopo, o anche solo di un sollievo dalla noia esistenziale. In questo senso tutti i personaggi di Antonioni sono assimilabili, ugualmente senza identità (tant’è vero che nella maggior parte dei casi hanno le stupende fattezze di Monica Vitti). Quando non sono impegnati in conversazioni miratamente triviali, costituiscono i mezzi per trasmettere l’amara filosofia dell’autore. Uno spunto per comprendere il suo pensiero ce l’ha dato lo stesso Antonioni, parlando de L’Avventura: secondo lui, abbiamo riconosciuto i nostri principi morali come rigidi e stereotipati, ma continuiamo a portarli avanti sostanzialmente per pigrizia, incapaci di trovarne di nuovi. Questo è una tra le tante tematiche che esplora nei suoi film.
I personaggi di Wong Kar-Wai sono, in sostanza, dei reietti. Possono esserlo quasi alla lettera (come il pittoresco individuo di Fallen Angels che, non avendo un lavoro proprio, di notte si arrangia lavorando ad attività non sue con clienti recalcitranti) o essere in apparenza ben inseriti (come gli sfortunati amanti di In The Mood For Love, separati dalle costrizioni di una società da cui tuttavia si estraniano), ma ogni volta saranno profondamente alienati da quello sciame confuso che sono le persone di Hong Kong, spesso non più di uno sfondo sfocato rispetto a loro. Questo, però, non vuol dire che essi non siano figli del loro contesto: il problema dell’appartenenza è, si può dire, di casa ad Hong Kong, colonia inglese in terra cinese, passata brevemente in mano giapponese negli anni della Seconda Guerra Mondiale. Negli anni ‘60, ad Hong Kong si respirava un clima di incertezza a causa delle tensioni politiche e della progressiva occidentalizzazione; in questi anni, non a caso, è ambientata la trilogia informale Days of Being Wild, In The Mood For Love, 2046, come non è un caso se il 2046 sia anche l’anno in cui scadrà lo stato di autonomia di Hong Kong, 50 anni dopo la cessione alla Cina. Nei suoi film Wong Kar-Wai accenna a questi fatti come casualmente, per poi rappresentare quasi in sordina l’anima della città attraverso gli amori dei suoi fragili eroi.
L’uso dei personaggi allontana i registi; alcune scelte registiche, pur comunicando lo stesso vuoto, li separano definitivamente. Un esempio è il differente uso degli spazi, un aspetto essenziale per comprendere l’opera di Antonioni (o almeno provarci). Ampie inquadrature aumentano lo spazio sotto gli occhi dello spettatore; l’architettura in particolare concorre a creare immagini, prospettive che persone molto più colte di me hanno paragonato a dipinti di De Chirico e altri. Questi spazi sono spesso deserti, con strade vuote, città silenziose, come se il vuoto straripasse da dentro i personaggi invadendo il panorama. Per Antonioni, infatti, lo spazio è un mezzo narrativo esattamente come i personaggi, arrivando a poterli sostituire: esattamente questo succede nei minuti finali dell’Eclisse, dove i personaggi, non presentandosi all’appuntamento che si sono dati, scompaiono del tutto dal film, soppiantati per diversi minuti da riprese di esterni con un che di surreale.
Diametralmente opposti, gli spazi di Wong Kar-Wai sono stretti, sovraffollati, soffocanti, come spesso lo sono le sue inquadrature. Anche all’esterno, gli spazi vitali sono limitati dalle folle eterogenee di Hong Kong, senza che questo aiuti in alcun modo le persone ad avvicinarsi (semmai l’opposto). Ma più importante dello spazio, in Wong Kar-Wai, è il tempo. Gli orologi sono un elemento costante nelle inquadrature, a ricordarci che “ogni cosa ha una data di scadenza”, anche i sentimenti; questa è l’ossessione di uno dei personaggi di Chungking Express, che lo porta (secondo un percorso logico direi quasi obbligato) a mangiarsi decine di scatolette di ananas scadute. Strettamente correlati sono la nostalgia, e il sentimento del momento perduto per incapacità di afferrarlo, caratteri definenti in particolare di In The Mood For Love. Wong Kar-Wai arriva persino a dare un carattere preciso a questi momenti, attraverso l’uso ossessivo della musica (che usa anche per caratterizzare i personaggi stessi).
Non intendo mentirvi: questi non sono registi facili. Parlo in particolare di Antonioni, che ha fatto della difficoltà di comprensione la caratteristica fondamentale dei propri film. Personalmente, è proprio come un enigma che li ho vissuti, scervellandomi sul significato di ogni parola, ogni immagine; forse, è proprio questo il motivo per cui, pur riconoscendone la genialità, non sono riuscito ad apprezzarli appieno. Un enigma che non da risposte lascia vuoti. Credo che fosse proprio questo che il regista voleva comunicare, ma non è una bellezza adatta a tutti.
I film di Wong Kar-Wai, per me, hanno avuto un impatto emotivo totalmente diverso. Ne avevo accennato parlando dei personaggi: se quelli di Antonioni sono disperatamente vuoti, i personaggi di Wong Kar-Wai, per quanto soli e bizzarri, sono estremamente umani, e di conseguenza è molto più facile affezionarcisi. I loro contatti non sono mai duraturi; ma è proprio questo a dar loro valore, come brevi momenti di luce al termine di una lunga notte.
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