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Intervista a le Altre di B

  • Roberto Checchi
  • Oct 31, 2017
  • 4 min read

Miranda!, il nuovo album degli Altre Di B è un concentrato di esperienze e di viaggi. Differisce dalla leggerezza di Sport, muovendosi verso la passione per la scoperta, anche geografica. Andiamo a capire il perché.

Ciao ragazzi! Ho qualche domanda da farvi vista la recentissima uscita del vostro nuovo disco. Cos’è successo dal vostro ultimo album, Sport, ad ora? Sono cambiati i vostri presupposti?

Credo che i presupposti siano gli stessi di prima, ma in un’epoca e in un’età anagrafica differenti. Sono infatti passati tre anni dall'ultimo disco e nel mezzo è successo un po’ di tutto, sia nel mondo discografico italiano, sia nelle nostre vite private. Queste contingenze hanno dato vita a Miranda!, un disco rock in un periodo di estinzione del genere, nel quale abbiamo confluito esperienze personali, viaggi, entusiasmi e frustrazioni di quattro quasi-trentenni. C’è molto di nostro e ne siamo estremamente orgogliosi.

Lo sentite ancora vostro? O vi siete stancati di portarlo in giro? So che succede…

Più che non sentirlo più nostro, ci siamo un po’ stancati di suonarlo, credo che sia naturale per chiunque faccia musica, che è un mestiere nel quale devi ripetere centinaia di volte la stessa cosa e con la stessa intensità. Di quell’album portiamo ancora in giro giusto un paio di pezzi, perché il resto non ci sembra più adatto a una scaletta di un’ora nella quale gli andamenti sono molto importanti. Altre canzoni invece ci sembrano appartenere a uno specifico frangente della nostra vita e farle adesso stonerebbe.

Ma veniamo ora alle cose più recenti: il vostro nuovo album, Miranda!, uscito il 27/10. È cambiato qualcosa nel vostro modo di concepire i lavori in studio?

Assolutamente. Questo disco è stato registrato quasi interamente in presa diretta, un’esperienza d’altri tempi che ci è servita a maturare dal punto di vista della dinamica e dell’esecuzione: in alcune canzoni si posso sentire alcune imprecisioni, stonature e altri errori che abbiamo volutamente scelto di tenere. Ci siamo appassionati molto di più al lavoro in studio e abbiamo curato il suono come non avevamo fatto nei precedenti lavori, provando amplificatori, pedali, pelli e piatti diversi. È stata una gestazione molto più divertente delle precedenti.

Una domanda riguardo al titolo è d’obbligo: Miranda!. Ho letto che si tratta del libro di Quirico Filopanti, (politico, astronomo e matematico dell’Ottocento). Cosa vi ha spinto a erigerlo come titolo del vostro album?

È il libro di un grande bolognese che contiene la prima teoria dei fusi orari, un pensiero destinato a cambiare tanto la geografia quanto la comunicazione dell’intera umanità. Diciamo che il fil rouge che collega tutta la band è -per l’appunto- il viaggio e abbiamo pensato che Miranda! fosse un titolo perfetto per celebrare al contempo Bologna e il mondo, con le sue interconnessioni, coi suoi aeroporti, i suoi fusi orari e una collettività in perenne movimento. Ce lo insegna la storia dell’uomo, siamo tutti viaggiatori. Di recente è successa una cosa curiosa. Stavamo passeggiando per Philadelphia e un tizio ci ha scambiati per persone del luogo: è sempre bello non sembrare un visitatore. Ci ha chiesto un’indicazione stradale e gli abbiamo risposto che eravamo turisti. E lui: “Siamo tutti turisti”. A proposito di movimento.

Cosa si cela all’interno dell’album?

Sono dieci canzoni che raccontano dieci luoghi, persone e situazioni delle quali abbiamo fatto esperienza nel corso di questi anni. Situazioni che abbiamo musicato con bpm ridotti rispetto agli altri album, ma mantenendo le chitarre e l’attitudine punk rock. Il mondo è incredibilmente vario.

Le sonorità si sono inspessite, sembra abbiate superato la vostra fase più prettamente pop, in favore di qualcosa più maturo. Come avete affrontato la vostra crescita?

Innanzitutto grazie mille per la considerazione, in effetti la volontà era quella di essere più fedeli a quello che siamo dal vivo. Generalmente mi piace che ci sia differenza fra un disco e un live, ma nel nostro caso c’erano alcune discrepanze che andavano sistemate. Motivo per cui registrare in presa diretta ci è servito a essere più vicini a quello che facciamo durante i concerti. Tutto questo è stato reso possibile dal lavoro che abbiamo fatto con Stefano Riccò del Dude Music di Correggio, che ci ha lasciato molta libertà e ci ha permesso di registrare con amplificatori e pedali eccezionali. Inoltre, non meno importante, sono cambiati gli ascolti di tutti e quattro, più orientati a brani più lunghi e lenti, nei quali poter costruire melodie e arrangiamenti meno isterici. Ecco, volevamo più respiro sonoro.

Ci sono stati degli artisti che in questo periodo hanno influenzato particolarmente il vostro suono?

Fra i tanti direi Glass Animals, De La Soul, Cloud Nothings, Childish Gambino, Dent May, St. Vincent, Beck e Arctic Monkeys. Al di là del loro songwriting straordinario, ci piace ascoltare il tipo di produzione di questi artisti. Ci hanno dato spunti molto interessanti sul piano del groove.

Nella traccia di chiusura del disco dite “The most excitement part is yet to come”. Quale sarà questa parte? Vi riferite ai live o a qualcos’altro?

Quando qualcuno o qualcosa rovina la tua esistenza non puoi che sperare che le cose ti vadano meglio. In questa canzone una clamorosa tempesta di sabbia si abbatte sulla città di Bloemfontein, in Sudafrica. Una metafora degli eventi straordinari della vita: alle volte il processo di rimozione di qualcosa di brutto può essere semplice come spazzare via un po’ di sabbia. E dal canto nostro diciamo che abbiamo allontanato dalla nostra vita tutto ciò di superfluo. Lo so, sono stato vago, ma è il senso della frase. Ognuno ci vede un po’ di sé.

Se poteste scegliere un artista qualsiasi con cui condividere il palco, chi scegliereste e perché?

Se fossero ancora insieme vorremmo suonare coi Presidents of the U.S.A., una band chiave nella nostra vita artistica, la band con la migliore attitudine dal vivo di sempre. Ci hanno insegnato che i cazzi propri, i malumori, le tensioni e la pesantezza della vita non devono mai finire su un palcoscenico. Dopotutto gli spettatori pagano un biglietto per emozionarsi, non per angosciarsi. E in questo sono stati dei maestri: chitarra, basso, batteria e un agonismo sbalorditivo, a prescindere dal contesto, dal numero di persone che assistono, dai problemi tecnici e dalla pioggia. Si suona per divertirsi, non per dimostrare qualcosa a qualcuno.

Ci salutate con una canzone che ascoltate spesso in questo periodo?

Certo, 1612 dei Vulfpeck.

 
 
 

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